

1611
olio su tela, cm 306×205
Il Pio Monte pagò 100 ducati a Fabrizio Santafede per l’opera San Pietro resuscita Tabithà, episodio presente negli Atti degli Apostoli. Lo scopo era quello di illustrare, attraverso il dipinto, l’opera esercitata dal Pio Monte di Soccorrere i poveri vergognosi; tale attività racchiudeva le tre pratiche assistenziali: del dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati e vestire gli ignudi. La storia infatti narra di Tabithà, una donna di Giaffa, dedita alle buone opere: donava le sue ricchezze ai bisognosi e confezionava vestiti che regalava alle vedove. Ma un giorno la pia donna si ammalò e morì. San Pietro, chiamato al suo capezzale, trovò molte donne nella stanza che piangevano e stringevano tra le mani gli abiti che Tabithà aveva loro donato. Pietro mandò via tutti e rimasto solo nella camera si raccolse in preghiera e la resuscitò.
In questa tela il Santo è raffigurato in piedi accanto al letto sul quale giace Tabithà, veste una tunica blu e un mantello color oro, stringe nella mano destra le chiavi, mentre con la sinistra afferra il braccio della donna, nel gesto di sollevarla seduta. Tabithà, sul letto ricoperto con un drappo rosso, è vestita di bianco e ha il capo coperto da un velo, si sveglia dal torpore della morte. Attorno a queste due figure principali si dispongono uomini e donne che mostrano a San Pietro i doni ricevuti dalla donna caritatevole quando questa era in vita: in primo piano, in basso a sinistra una donna guarda verso il Santo mostrando le stoffe, alle sue spalle un’altra regge nel palmo sinistro delle monete, sulla destra un uomo sorretto da una stampella mostra un pezzo di pane.
Un cielo di nuvole azzurre fa da sfondo ad un’ambientazione archeologica con ruderi di edifici, a testimonianza della documentata passione per l’antico e la conoscenza dei resti di epoca romana dell’area flegrea, che l’artista ben conosceva.
Santafede, molto attivo e richiesto a Napoli e in Spagna, fu il maggiore esponente dell’arte tardo manieristica a Napoli. Il termine “Manierismo” fu inventato a metà Cinquecento da Giorgio Vasari per indicare lo stile di un’artista di “bella maniera” caratterizzato da qualità di grazia e armonia, proprie dell’arte del Cinquecento.
Nonostante la sua formazione il Santafede non resta indifferente al rivoluzionario capolavoro di Caravaggio dipinto pochi anni prima per l’altare maggiore della Cappella del Pio Monte; come nella tela del Merisi molte figure affollano la scena, ma, queste a differenza, sono disposte in modo ordinato, composto, si staccano dal fondo che questa volta è chiaro, così come i colori sono accesi e le ombre leggere avvolgono le figure senza tagli netti. Non mancano poi dirette i riferimenti a Caravaggio, come l’uomo nudo ripreso di spalle in basso a destra nel dipinto.