

Michelangelo Merisi detto Caravaggio (nato a Milano nel 1571 – morto a Porto Ercole nel 1610)
Nostra Signora della Misericordia, noto come Sette opere di Misericordia
1606-1607
olio su tela, cm 388 x 255
A Roma nel 1606, a causa di una animata partita di pallacorda (una specie di tennis), Caravaggio litiga con Ranuccio Tomassoni. Tra i due scoppia un duello e Caravaggio, se pur ferito, uccise il rivale, e da quel momento l’artista, tra i più ammirati della sua epoca, fu costretto a scappare perché le autorità papali avevano emesso nei suoi confronti un mandato di cattura e una condanna a morte, valida entro i confini dello Stato Pontificio. La sua fuga durò diversi mesi, ma grazie alla protezione di importanti famiglie della nobiltà, come i Colonna, Caravaggio raggiunse Napoli nell’ottobre 1606. In città, tra i primi a servirsi della sua arte furono i Governatori del Pio Monte che lo incaricarono di realizzare la tela Le Opere di Misericordia per l’altare maggiore della loro chiesa; l’opera fu pagata una cifra molto alta ben 400 ducati.
La tela riassume in un’unica scena tutte le opere di misericordia e rappresenta una tappa fondamentale nel percorso dell’artista collocandosi tra le sue composizioni più alte concettualmente e artisticamente. Infatti, Caravaggio unisce in questo capolavoro citazioni classiche e bibliche, e coinvolge l’osservatore tramite contrasti di luci e di ombre in una visione realistica della sofferenza e della carità, quasi riproducendo uno spaccato di vita quotidiana, dove poveri e ricchi si mescolano insieme.
In alto è raffigurata la Madonna della Misericordia col Bambino che, sorretta da due angeli che si intrecciano in volo, guarda verso il basso l’animata scena che si svolge sulla terra. Il Bambino, in braccio a Sua Madre, gira la testa oltre la sua spalla, per guardare in giù con lo sguardo intenerito e compiaciuto.
Nella parte inferiore del dipinto è raffigurato un buio ed affollato vicolo, dove è possibile riconoscere tutte le sette opere della Misericordia corporale. Sulla destra, in primo piano, le due opere di carità “dar da mangiare agli affamati” e “visitare i carcerati” sono rappresentate da un vecchio, Cimone, condannato in prigione a morire di fame, e per questo visitato e nutrito di nascosto dalla figlia Pero. I due personaggi sono raffigurati con estrema crudezza: sul viso della donna è evidente la paura di essere scoperta mentre offre il proprio seno al padre affamato che sporge la testa attraverso le grate della finestra della prigione e beve avidamente il latte dal seno della figlia, tanto da sporcare la barba con le gocce di latte. L’episodio proviene dalla letteratura latina ed è narrato come esempio di amore filiale nel “De pietate in parentes” da Valerio Massimo.
Appena dietro la scena di Cimone e Pero si racconta l’opera seppellire i morti: da un vicolo, sulla destra, spuntano due uomini che accompagnano un cadavere alla sua degna sepoltura; il primo è di spalle, il volto in ombra, con le mani stringe con forza i lembi di un lenzuolo utilizzato per trasportare un morto di cui si vedono solo i piedi perché il resto del corpo è nascosto dietro al muro del carcere; il secondo uomo raffigurato accompagna il corteo, indossa una camicia bianca e un berretto nero, regge con la mano destra una torcia che illumina la strada, con la bocca sembra recitare preghiere per l’anima del defunto. Forse Caravaggio ha avuto modo di vedere di persona questa scena che doveva essere abbastanza frequente a Napoli per le continue epidemie, un’opera di carità tra le prime finanziate dal Pio Monte che richiedeva grande amore per il prossimo.
Quasi al centro del dipinto, in primo piano, un cavaliere con un cappello piumato ricorda la legenda di San Martino di Tour mentre divide il proprio mantello con un vecchio povero e paralitico raffigurato di spalle, nudo e seduto per terra nella parte bassa del dipinto. I due personaggi rappresentano insieme le opere di misericordia “vestire gli ignudi” e “visitare gli infermi”.
A sinistra due personaggi simboleggiano l’opera di carità “ospitare i pellegrini”. Caravaggio raffigura due uomini, uno di fronte all’altro che sembrano conversare: del primo, che dà le spalle a San Martino, si nota il profilo, il volto magro, il naso dritto, la folta barba, indossa un cappello decorato con una conchiglia, simbolo di pellegrinaggio, così come lo è anche l’umile abbigliamento da viandante. L’altro personaggio, di fronte ha un viso paffuto e colorito, forse un locandiere, sembra indicare un luogo sicuro dove il pellegrino può trovare accoglienza.
Sempre a sinistra, ma dietro questi ultimi personaggi, un po’ nell’ombra c’è un uomo con la barba che compie il gesto di bere. Caravaggio ricorre alle Scritture dell’Antico Testamento per illustrare il “dar da bere agli assetati”. dove si narra che Sansone dopo una lunga battaglia beve da una mascella d’asino, dalla quale fuoriesce miracolosamente acqua.
La straordinaria tela con la sua forza di comunicazione e la sua innovativa tecnica pittorica con forti chiaroscuri, divenne immediatamente un punto di riferimento per i pittori locali, ancora legati ad una pittura più tradizionale con una luce diffusa e i colori intensi.
Il dipinto fu considerato talmente importante fin dal momento in cui venne posto sull’altare maggiore privilegiato, che già in un verbale di un’assemblea del 1613, dopo tre anni dalla morte del pittore, se ne vietavano la riproduzione e la vendita.